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venerdì 6 marzo 2009

Do you remember Montalto di Castro?

di Maria Delfina Bonada, Sandrone Dazieri

Festa della primavera a Montalto
di Maria Delfina Bonada
(il manifesto, 22 marzo 1977)

Montalto di Castro. Doveva essere, secondo l’Unità, il "raduno nazionale degli autonomi", e, dalle colonne della prima pagina, metteva in guardia chi voleva andare a Pian dei Cangani, a manifestare la sua opposizione alla costruzione di due centrali nucleari, nella campagna maremmana, sul litorale tra Tarquinia e l’Argentario.
Il presidente della Regione, il comunista Maurizio Ferrara, aveva inviato una telegramma al sindaco socialista di Montalto, peraltro dimessosi sabato perchè contario alla centrale, e quindi in dissenso con li Pci: "Colgo l’occasione", diceva il telegramma, per "esternare preoccupazione, auspicare vigilanza democratica per annunciata partecipazione di gruppi ed elementi intenzionati a praticare l’esercizio di metodi violenti e illegali". E l’appello non aveva mancato di destare preoccupazione tra la gente del posto, braccianti, pescatori, scaricatori al porto di Civitavecchia, tutti o quasi di sinistra.
"Ci avevano detto in piazza, mi raccontano due donne di Montalto, che ci sarebbero state legnate e molotov". "Mio marito mi ha telefonato questa mattina: qui ci sono tanti giovani che ballano e cantano, m’ha detto. Allora siamo venute tutte". E’ vero, domenica erano migliaia, poco importa se 5 o 10.000.
L’importante è che "la festa è riuscita" e che, a un mese dall’altra manifestazione alla quale avevano partecipato poche centinaia di persone, questa volta la manifestazione ha assunto dimensioni nazionali con delegazioni venute da Seveso. dal Veneto, da tutte quelle zone ferite dagli inquinamenti industriali. E questa volta la "festa" era organizzata sotto il segno del’antifascismo e dell’anticapitalismo, anche se espresso in forme colorite. Protagonisti della "festa della primavera" sono stati soprattutto gli indiani metropolitani in versione campestre. Gli slogan che gridavano nelle strade di Roma, fino alla scorsa settimana, erano stati messi in musica e cantati. Lo strumento era la fisarmonica, i girotondi li facevano attorno a gruppi di contadini col vestito buono della domenica. Nel giro di una giornata i visi dipinti si sono moltiplicati con addirittura qualche ombra di trucco sul volto di Caracciolo, esponente del comitato civico cui aderiscono i cittadini e non i partiti, tant’è vero che ne fanno parte numerosi montaltesi che pure sono iscritti al Pci. A Pian dei Gangani, gli striscioni delle forze politiche erano dunque assenti. C’erano invece quelli di alcuni collettivi di facoltà come quello di Biologia. Un lungo striscione rosso, poco adatto per la campagna, che un vecchio contadino tentava di piazzare al suolo con una mazza. "Arma impropria", avrebbe sostenuto ubn poliziotto se lo avesse bloccato sull’Aurelia. Perchè bisogna dire che polizia e carabinieri si erano mobilitati in massa contro questa manifestazione. Diversi blocchi stradali, ognuno dei quali con 5 o 6 gazzelle, decine di poliziotti con mitra spianato perquisivano quasi ogni macchina, lungo tutto il percorso dell’Aurelia. Sul luogo un elicottero della polizia ha sorvolato per tutta la mattina il campo, e alla fine, dopo un ultimo giro a bassa quota, si è allontanato inseguito dalle urla di "scemo scemo".
Sul palco, intercalati dai canti, gli interventi. Inutile elencare tutti i gruppi, collettivi, che si sono susseguiti al microfono. Unanime è stata la denuncia del progetto della centrale, marcate, in diversa misura le accentuazioni esplicitamente "politiche" ed il "respiro nazionale" comunque presenti. Il progetto coprirebbe una superficie di 300 ettari. Si dice che finora l’Enel abbia già trattato per 100 ettari al prezzo di 24 milioni l’uno. E’ questa infatti la cifra che l’Enel offre in cambio di terre fertili, il cui prezzo di mercato si aggirava fino a ieri attorno ai 7 milioni. I grossi proprietari terrieri, che in primo tempo erano contrari alla centrale, cominciano a ripensarci e ad avvicinarsi a chi sostiene la sua costruzione. La Cgil-scuola di Viterbo, invece, ha deciso di impiegare le 150 ore per spiegare alla popolazione i caratteri dell’insediamento di una centrale atomica. Va infine rilevato un ultimo fatto finora abbastanza in ombra.
Montalto di Castro dista da Tuscania una trentina di chilometri. E Tuscania meno di dieci anni fa, fu colpita da un terremoto di grandi proporzioni. Si è scelto quindi e deciso di costruire la centrale in una zona sismica, dove un terremoto potrebbe danneggiarla e provocare infiltrazioni. Ma pare, secondo i sostenitori del progetto, che la conformazione geologia di Montalto sia di natura diversa. Si è vista nel Friuli, la riuscita della previsione sismica attraverso lo studio preventivo del terreno.

(il manifesto 22 marzo 1977)

"Adesso si ricomincia, pare"
di Sandrone Dazieri

Alle cinque del mattino qualcuno si alza e va al microfono del pullman. Ci sono dei blocchi, bisogna trovare un’altra strada. Il pullman accosta al lato della strada, subito imitato da altri che ci stanno dietro. Si consultano freneticamente cartine alla ricerca di un passaggio che ci faccia girare al largo dalla polizia. Non c’è. Bisogna proseguire a piedi. Si fa passaparola con le radio, saltiamo giù. Io ho freddo e sonno, non ho dormito un cazzo durante il viaggio, tenuto sveglio da quelli che cantavano e ridevano per tutto il tempo. Io non riesco mai a divertirmi prima, troppa tensione. Se rinasco, penso, rinasco di destra. Meno sbattimenti.
Camminiamo nei campi con il buio, al seguito di qualcuno che dice di sapere la direzione. Il terreno sotto gli anfibi è umido e pesante. Dietro di noi la fila si ingrossa un po’ alla volta. Ci contiamo. Hanno fermato metà dei pullman all’uscita dell’autostrada. Saremo cinque o seicento. I suoni sono quelli di un plotone in marcia nella guerra ’15-’18, passi e del fiato pesante. Verso le sei, ritroviamo una strada asfaltata scavalcando una recinzione e, poco più avanti, appare un’ombra nera sullo sfondo. E’ la Centrale Nucleare di Montalto di Castro. Costruenda, in realtà.
La strada dove siamo è quella che fanno i camion degli operai che ci lavorano. Noi dobbiamo arrivare prima di loro e bloccarli, per almeno un giorno. E’ l’ultima manifestazione di una serie: Caorso, Trino Vercellese, il Pec del Brasimone. E’ stato un anno di campeggi antinucleari e cortei, soprattutto di scontri. La polizia carica sempre, il gioco è resistere il più possibile senza farsi massacrare. Quando siamo a cinquecento metri dai cancelli, la notte sparisce bruciata dalle fotoelettriche. Sono due, enormi, piazzate all’interno del perimetro. Finalmente vediamo. Davanti alla centrale ci sono centinaia di celerini in tenuta antissommossa, dietro i cancelli decine di blindati. Ci aspettavano, naturalmente.
Un dirigente con il megafono ci chiede di liberare la strada. Noi ci guardiamo. Sotto le luci impietose sembriamo ancora più pochi. Per lo più ragazzi sui venti, da tutta Italia. Molti napoletani, moltissimi laziali, un gruppetto nutrito anche da Milano, tirato su dai collettivi autonomi e dagli anarchici. Io sono con il collettivo di Via dei Transiti, una casa occupata dagli anni settanta, dove qualche anno dopo andrò a vivere. Continuiamo a camminare. Ho lo stomaco stretto. Parte una sirena, che sembra quella di una fabbrica, poi la celere carica. Gli scontri avvengono nei campi, mentre il cielo rischiara. Lacrimogeni da una parte, dall’altra pietre e zolle di terra. Fiondate con le biglie.
Io sono una pippa negli scontri, lo sono sempre stato. Più che altro faccio numero. Corro da una parte all’altra, guardo. Un ragazzo accanto a me si prende un lacrimogeno nel petto e sbocca sangue, una fila di celerini carica nei campi e si disperde sotto una pioggia di pietre che rimbalzano sui caschi e gli scudi. Urla, casino. Ci disperdiamo nei campi. Dopo un’ora, ci ritroviamo sulla strada principale, contusi e ansimanti. La celere è ferma tra i campi e la centrale. Loro sembrano ancora in forma, noi siamo al lumicino. Un funzionario della questura si incontra con uno dei Volsci. Potete rientrare in città, dicono, ma niente casino. Altrimenti sono cazzi amari.
I cazzi arrivano lo stesso. Mentre camminiamo verso la tangenziale, ci caricano ancora a freddo. Non ne avevamo prese abbastanza. Ci disperdiamo in gruppetti, mentre i celerini ci abbattono a manganellate. Qualcuno scappa sui binari della ferrovia, qualcuno corre in mezzo alle auto sulla provinciale, qualcuno cerca di bloccare le corse dei blindati, che piombano in mezzo a noi con violenza e lacrimogeni, mettendo di traverso sulla strada i sostegni delle recinzioni divelte. La maggior parte corre e grida. Una mattanza. Se qualcuno fosse passato in elicottero da quelle parti, avrebbe visto sui campi e la strada aprirsi strane stelle marine formate da celerini, con al centro un manifestante appiattito dalle bastonate.
Arriviamo nella piazza del paese a piccoli gruppi. Ci contiamo, siamo la metà. Corrono voci di ogni genere: arresti di massa, torture, fucilazioni. Qualcuno dice che un grosso gruppo di manifestanti è bloccato dietro un autogrill, bisogna andare a vedere se è vero, chiederne la liberazione. Chi ci va? Io. Ho la faccia da bravo ragazzo, me lo dicono sempre. Magari non mi notano. Arrivo all’autogrill, a un chilometro dal punto di raccolta. Ci sono solo pullman vuoti. L’atmosfera è surreale. La tangenziale è chiusa al traffico, non si muove una foglia. Di manifestanti bloccati non se ne vedono. Scoprirò parecchi giorni dopo che il gruppo di quelli che mancava aveva deviato lungo un’altra strada, arrivando sano e salvo in paese. Decido di controllare dentro l’autogrill, da vero idiota. Capisco di essere tale appena passo le porte scorrevoli. Dentro ci sono solo divise che si riposano dopo gli scontri. Avessi messo un neon sulla testa sarei stato meno visibile. Cerco di uscire, non arrivo neanche alla porta. Mi prendono e mi caricano su un blindato. Chi mi arresta ha un occhio nero e mi fa vedere la visiera del casco. E’ forata da una biglia di metallo. Sei stato tu, mi chiede? Vorrei dire la verità e rispondere di no. Ma mi sembra una vigliaccheria, nei confronti di quelli che l’hanno fatto, e con i quali, verosimilmente, ero complice. Per cui sto zitto. Aspetto le mazzate. Che non arrivano. Loro sono stanchi, io innocuo.
Il blindato passa i cancelli della centrale, dentro la quale, in un prefabbricato, è sistemata una sorta di questura mobile. I celerini mi tirano giù di peso, letteralmente non tocco terra e mi sbattono in una stanza dove ci sono un’altra decina di manifestanti arrestati durante le cariche. Sono tutti malmessi. Tagli in testa, dita rotte, lividi in faccia. Al confronto, io sono un fiore. L’unico che conosco è Daniele, con una mano fracassata. Lo metterò nei miei libri anni dopo, poi diventerà parlamentare. Visto che non sappiamo la nostra situazione fingiamo di non esserci mai incontrati prima. Anche tu sei di Milano, ma guarda.
Un graduato ci esamina. Ha i baffi e la stazza del Sergente Garcia, e non gli stiamo molto simpatici. Visto che sono sano mi toglie gli occhiali e mi prende a sberle fino a quando un superiore gli dice di piantarla. Aspettiamo. L’atmosfera si rilassa un po’, ci fumiamo una sigaretta. Sentiamo, dalle altre stanze, le radio che raccontano di un corteo pacifico in paese, di un presidio, le voci dei blindati che comunicano le loro posizioni. Poi ci consegnano un verbale di arresto. Sul mio c’è scritto che mi hanno preso davanti alla centrale, con un bastone in mano e una fionda in tasca. Ci ammanettano. Mi stupisco di quanto siano leggere. Le guardo sui miei polsi mentre mi fanno salire sul cellulare. E’ una strana sensazione. Mentre il cellulare mi porta sino al carcere, penso a quello che sto perdendo. Una vita normale, probabilmente. La possibilità di passare ancora per bravo ragazzo. Di fare la carriera che mia madre aveva sperato per me, quando mi ero iscritto a Scienze Politiche.
Mia madre che scoprirà di quello che mi è successo dal quotidiano "La Provincia". Titolo: E’ cremonese, l’autonomo arrestato a Montalto. Le arriveranno telefonate imbarazzate da parenti e colleghi. Valle a spiegare che era un corteo che doveva essere pacifico. Il cellulare mi scarica nel carcere di Civitavecchia. Il portone si chiude sulla mia vecchia vita. Era il 1986. Un anno dopo, un referendum sancirà l’abbandono del nucleare da parte dell’Italia.
Adesso, pare, si ricomincia da capo.


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